Le donne giocatrici

Facendo seguito a un post di Giorgia Pandolfo, pubblico un articolo originariamente scritto per la rivista CoachMag in cui dettaglio qualche differenza fra il modo di giocare degli uomini e delle donne derivato dalla mia esperienza personale, fra il serio e il faceto. Premetto e ribadisco, a scanso di equivoci, che non voglio assolutamente generalizzare e che le mie sono più che altro osservazioni statistiche, non giudizi né, ci mancherebbe, pregiudizi.
Per chi volesse altri spunti l’argomento consiglio il piccolo ma notevole lavoro di Marco Donadoni, Le donne, i cavallier, l’armi e i lavori. Meditazioni sui modelli di relazione e di management al femminile partendo da un’esperienza di gioco”, Società Editrice Dante Alighieri, 2011.

Che l’uomo e la donna siano sostanzialmente uguali è un dato di fatto, ma ciò non toglie che il modo in cui vivano il gioco si dimostri differente, e capirlo può aiutare a trovare la chiave giusta per proporre un approccio ludico a seconda dei nostri interlocutori.

La differenza di genere si vede già con una semplice statistica sulle presenze femminili alle fiere e ai raduni di giocatori, in cui, per quanto in aumento, le «quote rosa» raramente superano un quinto dei presenti, creando un ambiente vagamente da nerd che trovo un po’ sgradevole e innaturale. Quando poi ci spostiamo sulla torneistica, una ragazza iscritta a una competizione si trova con la stessa frequenza di una mosca bianca. Il mio Bang! rappresenta un po’ un’eccezione perché in media c’è addirittura una donna ogni quattro giocatori (fra parentesi, una donna finisce immancabilmente in finale e spesso diventa pure campionessa!), ma che questo sia visto come sintomo del successo di un gioco presso il gentil sesso la dice lunga sulla situazione.

Perché dunque il mondo femminile è così scettico nei confronti del gioco?

Se la domanda va posta a sociologi e antropologi, posso comunque portare il mio modesto contributo come autore di giochi che frequenta e osserva l’ambiente ludico da una ventina d’anni. Il tutto, ovviamente, con le dovute eccezioni e senza voler generalizzare troppo, trattandosi di un ragionamento per grosse linee dettato dall’esperienza.

Innanzitutto, ho notato che prima della pubertà questa differenza è poco significativa: giocano molto anche le ragazze giovani, magari (ma non sempre) preferendo giochi diversi dai ragazzi. Sembra che scatti qualcosa con la maturità, e laddove gli uomini riescono in molti casi a ritagliarsi un ambiente protetto per i giochi — in qualche caso venendo addirittura additati come «eterni bambinoni» — le ragazze sviluppano quasi un senso di responsabilità latente che le porta a snobbare il gioco come un passatempo inutile, probabilmente in maniera inconscia.

Forse anche per questo le ragazze si avvicinano molto raramente a un gioco con la dovuta serietà che richiederebbe: la spiegazione delle regole è vista come un noioso preambolo anche con il più divertente dei giochi, e di frequente l’attenzione delle pulzelle vaga per altri lidi già dopo pochi minuti. Inutile dire che questo si traduce in una comprensione del regolamento approssimativa e superficiale se non deficitaria, il che comporta a sua volta una scarsa competitività al tavolo e, di riflesso, ancora minori stimoli a giocare in maniera ottimale durante le partite. In realtà il gioco sarebbe un’attività «seria» a dispetto del nome: chi gioca dovrebbe cercare di farlo al massimo, non in surplace e chiacchierando senza seguirne l’andamento.

Ma per giocare in questo modo serve anche una spinta alla competizione, altra differenza importante che si riscontra in quasi tutti i gruppi di gioco.

L’uomo è competitivo in maniera innata; come dice Tommaso Palamidessi «l’uomo è spinto per natura a conquistare tutto con la lotta: la sua donna, il suo pane quotidiano, la sua posizione…». Spinta che riversa nel gioco, che immancabilmente prevede una lotta seguita dalla dimostrazione di chi sia il più forte. Non è un caso se i giochi di guerra hanno maggiore appeal sugli uomini rispetto alle donne. Le quali, è bene notare, non sono per niente pacioccone e accomodanti, anzi: solo che estrinsecano questa loro combattività in maniera più sottile, meno evidente, meno clamorosa. Le donne tendono a gestire le situazioni e le persone più che a comandarle apertamente, e rimandano lo scontro fisico e palese in un campo più vago e astratto, dove alla forza bruta sostituiscono la capacità di manipolare adeguatamente e sottilmente le risorse, e dove possono esercitare il loro potere di persuasione.

Queste riflessioni ci danno due spunti su quali giochi potrebbero incontrare il favore femminile, sempre che si superi il primo ostacolo di riuscire a farle interessare a un gioco in maniera seria.

Tanto per cominciare, preferire giochi di gestione piuttosto che di battaglia o comunque di scontro aperto. Giochi in cui non è tanto chiaro chi sia il leader al momento, dove ci sia qualche obiettivo nascosto, che preveda manovre sottobanco, accordi segreti, sotterfugi. L’uomo è per lo scontro brutale, definitivo e semplificativo, la donna per il confronto raffinato e astuto, che più che chiarire la situazione la complica in un groviglio le cui fila possono essere tenute solo da lei.

Ne consegue anche che un’alta interazione fra i giocatori è consigliabile. Le donne sono mentalmente assai più attive degli uomini, non nel senso che siano più intelligenti (ma neanche meno intelligenti, sia chiaro), ma che i loro ragionamenti sono più elaborati o addirittura contorti — per lo meno secondo lo standard degli uomini: il vecchio adagio secondo cui l’uomo è semplice e la donna complicata in un certo modo riflette, da un punto di vista squisitamente maschile, questa diversità.

Il fatto di poter dialogare e convincere gli altri nel gioco è quindi una caratteristica che ha un suo gradimento per le giocatrici, perché attraverso la conversazione possono esplicare al meglio le loro micidiali armi di convincimento e di gestione in cui sono maestre indiscusse. D’altro canto l’uomo, che spesso sa o intuisce di essere palesemente inferiore in queste aree, quando si confronta con una donna tende a evitare situazioni del genere, preferendo alle trattative lo scontro manifesto oppure nascondendosi dietro un atteggiamento da prepotente bullo del quartiere.

Ecco perché fra i preferiti dalle donne ho visto rientrare i giochi di comitato, i giochi di ruolo, o comunque i giochi in cui c’è una forte componente di dialogo (Lupus in Tabula, Sì Oscuro Signore, ma anche Bang! nel suo piccolo), mentre i giochi di guerra e di battaglia sono meno ricercati. Ancora meno ricercati sono i giochi in cui ci sia una forte competitività fra i giocatori, in cui si possa dimostrare chiaramente chi è il migliore, specialmente se tale dimostrazione non passa per percorsi aleatori o confusi: non è un caso, forse, che gli Scacchi siano apprezzati quasi esclusivamente dagli uomini. Infatti l’uomo vuole vincere e farlo sapere a tutti; la donna vuole vincere ma senza farlo sapere a nessuno (anche perché conoscere la realtà è un primo passo per cambiarla!).

Chiudiamo con un paio di notizie che probabilmente pochi non addetti ai lavori conoscono.

Gli autori di giochi rispettano le stesse statistiche dei giocatori, se possibile in maniera ancora più marcata: le autrici di giochi sono realmente una rarissima eccezione alla regola.

Eppure è donna (Maureen Hiron) l’autrice di uno dei giochi di maggiore successo del XX secolo, Continuo. Dal 1982 a oggi ha venduto ormai oltre 6 milioni di copie in 50 paesi, ed è incluso nelle Olimpiadi della Mente fin dal 1997.

E’ donna anche l’autrice del primo gioco di carte speciali pubblicato negli Stati Uniti, Dr. Busby, nel 1840: si tratta di Anne Wales Abbott.

Ma, soprattutto, è donna l’autrice del gioco da tavolo più venduto nella storia, il gioco che ha rivoluzionato il mercato ludico e che praticamente tutti conoscono. Sì, stiamo parlando proprio del Monopoly, creato originariamente non dall’ingegnere Charles Darrow come ritenuto comunemente, bensì da Elizabeth «Magie» Phillips che lo brevettò nel lontano 1904 con il titolo The Landlord’s Game. La Magie concepì il gioco contro il capitalismo sfrenato che porta alla rovina (era sostenitrice delle teorie di Henry George su un capitalismo più morbido che non potesse intervenire sulle risorse naturali), ma non riuscì a farlo pubblicare, probabilmente perché troppo innovativo per l’epoca. Solo dopo diversi decenni Darrow si appropriò dell’idea con una sua versione modificata che poi trovò il successo imperituro e che, ironia della sorte, divenne un oggetto di propaganda del capitalismo a livello mondiale, tanto da farlo vietare in Unione Sovietica, Cuba e Corea del Nord.

Questi pochi esempi suggeriscono che le donne hanno delle potenzialità enormi anche nel campo della creazione di giochi, se solo si dedicassero con passione a questo aspetto della vita.

EmilianoSciarra

Sono autore di giochi, scrittore, musicista, programmatore analista e grafico pubblicitario, nell’ordine.

Il mio gioco più famoso è BANG! (dV Giochi, 2002), un gioco di carte speciali ambientato nel Far West. Il mio libro più importante finora è L’Arte del Gioco (Mursia, 2010), un saggio divulgativo di ludologia.

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